Borgo San Paolo: storie del Caimano e…di Faustina

L’articolo, in una versione in minima parte differente, appare sulla Rivista Castelli Romani – vicende, uomini, folclore Anno LVII (Anno XXV nuova serie) – Luglio/Agosto 2017 – La rivista è reperibile in edicola e in libreria o scrivendo a: Arti Grafiche Ariccia, via B.go San Rocco, 128 – 00072 Ariccia (RM)

«Il Borgo corrisponde, grosso modo, al cosiddetto Tridente. Anche quest’impianto viario risale ai primi decenni del Seicento, quando ad Albano, sotto il principato di Paolo e Federico Savelli, si diede inizio all’ampliamento urbanistico (…) proseguito dagli Abati Commendatari i Cardinali Giulio, Fabrizio e Paolo Savelli (metà del 1600 circa).

(…) Punto focale del tante volte citato ‘Tridente’, sono la chiesa di San Paolo e l’antistante Piazza. Da qui si dipartono – o se volete giungono – a ventaglio, le tre vie: Via Prima di San Paolo, o Paolina (attuale via Aurelio Saffi); la Seconda di San Paolo o via di Mezzo (odierna via San Gaspare del Bufalo), ed infine la Terza via di San Paolo, o del Borgo nuovo, (ora via Leonardo Murialdo).»*

Opera di Antonio Ligabue

Ecco. Da quel quartiere, uno dei più antichi di Alba Longa – Albanum, Albano, la piazza San Pavelo, o San Paolo, circoscritta prima dalle mura ciclopiche del Castrum di Settimio Severo e poi da quelle severe e occlusive dei conventi, scendeva e saliva di tutto. Soprattutto scendeva, certo per poi risalire, ma poiché quello è un tridente la risalita con mezzi restava un mistero. A metà degli anni ’70, così come oggi, se si poteva venire giù dritti per la via centrale dal culmine del tridente barocco, con una moto o un’auto, si doveva poi risalire per l’austera, bellissima e decadente via Saffi o per l’altrettanto storica, ma più modesta, via Leonardo Murialdo ed ecco fatto che chi scendeva da via San Gaspare del Bufalo non c’era verso di vederlo risalire. Scendeva la pioggia scrosciante a rivoli, veniva in discesa sui sampietrini lustri, e calava il vento tiepido di primavera che prima carezzava la costruzione del seminario e la piazza con le ricche chiome verde tenero dei platani, e poi scendeva, a razzo o’ Caimano. O’ Caimano, o il Caimano, come lo chiameremo di seguito per opportunità, era un vecchio leone di cui nessuno conosceva bene la storia, che abitava in un non meglio precisato rifugio presso l’ex Casino Maratti, di cui poi diremo, e veniva giù a rotta di collo su una moto storica: rigido come uno stoccafisso, vagamente somigliante al Flavio Bucci dello sceneggiato sulla vita del pittore Antonio Ligabue. L’epiteto di Caimano glielo regalava, forse, una smorfia sghemba e fissa come quella del rettile che aspetta la preda, qualcosa fra il sorriso, la fessura tratta da un coltello sulla carne e poi rimarginata, sotto una bocca di rudi baffi baffuta e il dorso irrigidito con i gomiti tenuti aperti come per una danza tribale mentre impugnava il manubrio del cavallo di ferro.

Si appalesava in cima alla collina del seminario in tarda mattinata, lo annunciava il rombo d’epoca come in un ferroso mezzogiorno di fuoco e l’avvertimento minaccioso era tutto per noi ragazzini: noialtri cominciavamo a scansare la palla, i carretti costruiti coi cuscinetti a sfera e smontavamo per tempo le girate di corda in cui la fila di maschi e femmine s’avvicendava vociante, festosa.

La strada nostra era un mistero a tutte le ore. Si giocava in discesa, e garantisco per tutti quelli che c’erano, che bisogna allenare la fantasia a disposizioni sempre nuove per non far rotolare qualsiasi cosa a valle: avevamo pure pletore di tricicli coi più piccoli, incluso mio fratello (un pignolo già da allora) che poi pretendeva di farsi saldare i guasti del suo dal proprietario d’una bottega di riparazioni qualche centinaio di metri più giù (il quale quando lo vedeva piccolo e accigliato col triciclo a mano cominciava a ridere dalla porta…). Altro mistero, le ginocchia e le mani si facevano nere in un minuto: non ricordo vestitini in quegli anni, se non uno rosa delicatissimo e il cerchietto di velluto coi fiori per le uscite con i miei, né ricordo, mai, le mani pulite. Dopo la discesa rumorosa, scenica e sferragliante del Caimano – sono sicura che non sarebbe sceso senza incuterci un timore barbino che ci faceva rimanere gola secca e bocca aperta a guardarlo muti – saliva verso il seminario per il pranzo, dal proprio illustre ed elegante palazzo, il vescovo. Non saliva da solo, ma con un breve stuolo di preti e pretini e noi c’avvicendavamo a baciargli le mani curate e inanellate e mentre lo accoglievamo qualcuno dallo stuolo elargiva caramelle dalla tasca interna all’abito talare. Risaputa la scena settimanale, o addirittura giornaliera nei periodi in cui non avevamo scuola, le caramelle uscivano con sempre maggiore lentezza da quella tasca, che con noi aguzzini di dolciumi a gratise la spesa sarebbe divenuta ben presto poco sostenibile. Nel pomeriggio, certi che non sarebbe passato nessun personaggio notevole, compravamo a botte di cinque lire a volta i pescetti di liquerizia duri e neri come la pece e le fragole dal cuore tenero di zucchero rossastro alla bottega del caffè e del latte su via Saffi.

Figure gentili percorsero quelle strade del tridente fra cui Faustina Maratti, figlia dell’illustre pittore marchigiano ed illustre ella stessa. Pare, infatti, che fallito in quel di Genzano il tentativo di ratto a suo danno da parte di Giangiorgio Sforza Cesarini, l’affezionato padre non la ricondusse di corsa a Roma ma tentò la via della mediazione cercando una abitazione confacente alla famiglia in un borgo altrettanto incantevole e dall’aria salubre, Albano, per l’appunto. Faustina, oltre che sul grande affetto paterno, poté contare su una educazione colta «che comprese il canto, la danza, la musica (suonava il clavicembalo), la lingua spagnola e, sotto la guida del padre, la pittura»*. Ebbe, inoltre, un matrimonio felice con Giovambattista Felice Zappi, avvocato e poeta arcadico che col nome di Tirsi Leucasio fu tra i fondatori dell’Accademia, e di cui conosciamo la raccolta postuma di Rime del 1723 pubblicate assieme a quelle composte da sua moglie.

Faustina, nota nell’Arcadia come Aglauro Cidonia, coltivò un verso che ricorda la naturale gentilezza del Petrarca seppure contenuto in uno schema compositivo ben preciso. I suoi componimenti, specialmente quelli dedicati alla prematura morte del figlio Rinaldo, di appena due anni, e al suo ideale femminino, ispirato alle mitiche virtù di Lucrezia Romana, furono giudicati già dai contemporanei toccanti e mai gratuiti. Scrive Faustina:

«Ovunque il passo volgo, o il guardo io giro,

Parmi pur sempre riveder l’amato

Dolce mio figlio, non col guardo usato

Ma con quel, per cui sol piango, e sospiro.

E tuttavia mi sembra, assisa in giro

Del piccol letticciuolo al destro lato,

Udir le voci, e scorger l’affannato

Fianco, ond’a forza egli traea respiro.

Poco aspro è forse il duol, che diemmi morte,

Togliendo al caro figlio i bei primi Anni,

Che vieni o rimembranza, e il fai più forte.

Ma tutti almen non rinnovarmi i danni:

Ti basti il rammentar l’ore sue corte,

E ad uno ad un non mi contar gli affanni.»

E ancora:

«Questa che in bianco ammanto, e in bianco velo
Pinse il mio Genitor modesta e bella,
È la casta Romana Verginella,
Che il gran prodigio meritò dal Cielo.
(…)

Di fuor traluce il bel candido cuore:
E dir sembra l’immago in questi accenti
A chi la mira, e il parlar muto intende:
Gli Eroi latini a forza di valore
Difenda pur, che a forza di portenti
Le Vergini Romane il Ciel difende.»

 Negli anni felici del loro matrimonio, gli Zappi aprirono il loro salotto ad alcune fra le personalità più interessanti dell’epoca, tra cui Georg Friedrich Händel, Domenico Scarlatti, Giovanni Vincenzo Gravina e Giovanni Mario Crescimbeni. A Faustina, purtroppo, arrivarono altri dispiaceri dai Castelli Romani: alcuni anni dopo la prematura morte del marito, Francesco, un ragazzo di Albano, dichiarò di essere figlio della relazione tra Faustina e Giangiorgio Sforza Cesarini. Il processo per uscire indenne dalla calunnia durò circa vent’anni fin quasi a ridosso della morte che la trovò nel 1745, infine, innocente.

Faustina passò alla storia quale poetessa dell’Arcadia, donna di grande bellezza e intelligenza, e perciò incline al riso, nonostante lutti e calunnie che la colpirono. Spirito indomito, restata vedova ed in età matura così rispondeva nel 1732 al suo assiduo ammiratore Camillo Zamperi di Imola:

«Mi siete così accuore, che non posso leggere i vostri caratteri senza non risentirne un piacere così intenso, che in quel momento io giurerei, che voi a me presente, ch’io vi veggo, ch’io vi palpo, e che io cento altre baie d’attorno vi faccia. E se non fosse il tanto onore che vi fanno le catene a cui siete legato, chissà, cosa mi parrebbe, e mi verrebbe voglia di fare?… Ah, che voi non potrete farlo, né allora che potevate avete avuto spirito; onde vi consiglio a tacere, e confondervi nella vostra somma coglionaggine.» *

Ora non resta che incamminarsi per quelle strade confortati dalle figure che nel tempo le hanno attraversate ma… la botteguccia delle caramelle è sparita, Palazzo Pamphilj, re del Tridente, alto e nobile davanti la luce struggente del tramonto, rischia di cadere giù una volta per tutte. A me passarci, per quelle strade, ricorda il sapore disgustosamente appassionante dell’aranciata amara che a noi ragazzini ci propinava Fernando al chiosco vicino il convento dei Cappuccini.

Un gusto difficile da mandar giù: aranciata sì ma amara. Serena Grizi

* Da: Le dimore storiche di Albano, la città dimenticata Tomo I, 2015, Prof. Alberto Crielesi pagine: 13, 23, 27

Per la elaborazione delle note storiche si rimanda, inoltre, alla bibliografia su Carlo Maratta e Faustina Maratti Zappi

Immagini:

Il Casino Maratti: oggi un condominio…

Faustina nella allegoria della pittura – presunto ritratto di Carlo Maratta

Una edizione de Le rime di G. Felice Zappi e F. Maratti